Certi pattern danno il mal di testa, altri il mal di mare… Come questo, che decora alcuni cortili della Alhambra: secondo me un racconto del mare attraversato e (o) un omaggio ai giochi d’acqua che impreziosiscono i giardini del palazzo più famoso dell’Andalusia.
Búgia è un’espressione vernacolare piemontese che significa “muoviti!” – e per inciso, precisiamo, i piemontesi si auto definiscono “búgia nën”, ovvero riluttanti a muoversi, o a smuoversi, dai propri luoghi o dalle proprie posizioni.
Búgia però è anche il nome di una città dell’Algeria, quella dove visse il celebre Leonardo Fibonacci, il padre dell’aritmetica e dell’algebra moderne nella loro declinazione europea.
Ebbene, con questo articolo che parte da Búgia (in Algeria) e arriva al Canavese (in Piemonte) dove è nata chi scrive, intendo innanzitutto dimostrare che esiste almeno un contro esempio al sopracitato pregiudizio “piemontesi Búgia nën” – di cui mi candido ad essere soggetto.
Sì, perché secondo me ha ben ragione Sir Ken Robinson quando insiste che il modello di scuola con gli studenti ai banchi 24/7 è perdente, nel senso che fa perdere molte, troppe opportunità non solo agli studenti – aggiungo io – ma anche agli insegnanti.
Personalmente provengo da una scuola superiore (un liceo scientifico) dove il professore di lettere, enciclopedia ambulante rigorosamente “fuori dalle righe”, almeno un giorno alla settimana ci portava fuori dall’aula. Niente di eclatante, sempre nella nostra piccola città di provincia e di campagna che si attraversava tutta, a piedi, in non più di un quarto d’ora: la visita a un museo, un’intera ora di spiegazione davanti all’affresco nascosto in una chiesetta a 2 minuti dalla scuola…
Oppure biblioteca, biblioteca e ancora biblioteca. Lì scoprivamo libri, autori, argomenti inimmaginati, enciclopedie da favola. L’archivio era ancora a schedine di cartone, bisognava aver ben dimestichezza con l’alfabeto (sic!), e quale reverenziale timore quando si scopriva che il volume richiesto era custodito là dove solo il bibliotecario poteva entrare, quando il libro era così prezioso e unico che lo si poteva soltanto consultare in sala…
… Ma sto divagando, mi perdo nei ricordi… Torniamo a noi! Il nocciolo della questione è che si usciva, si usciva e si camminava, persino la ginnastica non era più fine a se stessa, così come la letteratura, la logica, la memoria…. Si respiravano l’arte, la storia, la topografia e gli algoritmi di ricerca sul pavé delle stradine laterali, sulle scale della biblioteca, sulle dita che scorrevano gli archivi.
Lo storico tram di Milano atm 1503, fonte: Wikimedia Commons (Giorgio Stagni)
Altri tempi? E perché? Forse che i motori di ricerca sul web ci sono di ostacolo? Anzi, allargano gli orizzonti! Oggi possiamo in pochi secondi sognare di arrivare fino a Búgia, in Algerìa, … oppure arrivarci davvero dopo aver sognato, sulle orme di Fibonacci … Oppure no, perché i tempi storici sono ben difficili, il mondo non è più quello di una volta! Eppure … Oppure … Chi ci impedisce di uscire, camminare, sognare non sui banchi ma tra le vie di una città, non importa quale, ché anche lì un Fibonacci magari un’orma l’ha lasciata, un’impronta, un’eco da riscoprire tra il frastuono del traffico quotidiano…
Perché il fine della conoscenza, giustifica sicuramente i mezzi … specie quelli pubblici, per studiare respirando, in giro per le nostre belle città! 🚋🏛🚀
Se il matematico creativo può eventualmente trovare topologicamente interessante anche pettinare le bambole, sicuramente non è vocazione di nessuno passare la vita a calcolare radici quadrate, con buona pace delle calcolatrici elettroniche!
Non per niente il buon Pitagora “inventò” le famose terne che portano il suo nome. In altre epoche e culture, sappiamo che il parimenti buon Abu-l-Wafa al-Buzjani, nel X secolo del nostro calendario, utilizzava la terna 3-4-5 per verificare la perpendicolarità – e non di cateti di triangoli inventati ad hoc per fare esercizi, ma di muri ed angoli di pavimenti, stante che era un geometra e architetto tra i più sapienti della sua epoca, per inciso padre -tra le molte cose – della moderna trigonometria.
Il (un) fascino delle terne pitagoriche sta nel fatto che permettono di creare senza fatica infiniti triangoli rettangoli apparentemente diversi fra di loro: lo studente diligente e accorto si rende facilmente conto, dopo i pochi primi esercizi proposti dal libro, che i numeri in ballo sono sempre gli stessi, o perlomeno risultano fortemente imparentati fra di loro. Se ha avuto anche un insegnante accorto ( = che gli ha spiegato le terne pitagoriche evitando di considerarle una perdita di tempo), si sarà a quel punto accorto (e scusate le ripetizioni) che gran parte degli esercizi si risolvono facilmente con l’uso delle terne: niente di più difficile di un 3-4-5 o più rare volte un 5-12-13 per non dire qualche sporadico 7-24-25.
I problemi che presentano come dati di partenza le proporzioni tra i lati, poi, sono il più delle volte fatti per lasciar trasparire la terna sottostante, cosa che permette di risolvere il triangolo con pochi semplicissimi calcoli in aritmetica di base. Ricordo perfettamente quanto insistette su questo punto il mio insegnante di quinta elementare! Peccato invece trovare talvolta oggi, persino nel biennio superiore, chi delle terme pitagoriche non sospetta neppure l’esistenza, e instrada gli studenti a un diligentissimo uso della calcolatrice per ottenere risultati approssimati, il più delle volte senza nemmeno introdurre la minima consapevolezza sul fatto che le macchine – più degli esseri umani – sono soggette all’errore.
Alla domanda allora “a cosa serve” che gli studenti si tramandano speranzosi di una risposta di generazione in generazione, il rischio è che si debba rispondere un serio e sincero “solo a farti prendere dimestichezza con il concetto”. Perché a parte forse il Flatiron building di New York, il famoso “ferro da stiro”, tanti triangoli rettangoli con cui avere a che fare “nella vita di tutti i giorni” non è che se ne trovino: non tutti gli angoli di strada sono quello tra la Fifth Avenue e Broadway!
E non tutti gli architetti si chiamano Abu-l-Wafa, che misurava l’angolo retto con una “squadra” di lati 3-4-5! E in ogni caso da noi le “squadre” sono costruite sulla misura degli angoli (triangolo rettangolo isoscele con gli angoli acuti di 45° e metà del triangolo equilatero con gli angoli acuti di 30° e 60°) e non sulle proporzioni dei lati. Paradossalmente forse proprio per l’eredità di quel che Abu-l-Wafa ci ha genialmente tramandato: scherzi del destino e della storia!
E tant’è … pare tra l’altro che le nostre “pitagoriche” amiche venissero in realtà dalla Cina, ma questa, forse potrà essere un’altra pagina futura di questo blog.
Navigando sul web è possibile scoprire quello che fino a pochi anni fa potevamo soltanto immaginare… ad esempio: com’è la matematica in altre parti del mondo, in altre culture?
Sarà scritta in modo diverso, o insegnata in modo più “esotico”, o più pittoresca, o …
Fortunatamente, la matematica è un linguaggio a sé stante, spesso non ha bisogno di molte traduzioni per farsi capire da un capo all’altro del mondo. E girando il mondo (almeno in quel tour virtuale che i social media ci propongono), scopriamo che là, dove la lingua è per noi astrusa, piena di caratteri che non sapremmo nemmeno come pronunciare, la matematica è “come la nostra”: si imparano le stesse cose, si usano gli stessi teoremi, si arriva agli stessi risultati …
Un po’ delusi come quei turisti che non trovano quello che si immaginano di dover trovare, ci chiediamo, allora, se la “matematica interculturale” in realtà sia una finzione, qualcosa di inesistente che ci siamo inventati per passare il tempo.
Si e no, potremmo rispondere: da una parte si può prendere lo spunto della matematica per fare dell’educazione interculturale, “colorando” la materia con spunti interdisciplinari di approfondimento storico, o di costume.
Ma dall’altra, più ampliamo la nostra visione del mondo, più ci possiamo rendere conto che una differenza, in realtà, c’è, e anche importante: soltanto, abbiamo cercato dalla parte sbagliata!
Si imparano le stesse cose, certamente. Quello che cambia è molte volte il modo in cui si insegnano.
Ci sono (vaste) regioni della Terra dove le dita cominciano a contare prima della lingua: anche il modo di pensare la matematica sarà diverso. Anzi, forse la matematica sarà molto meno “pensata” di quanto siamo soliti dare per scontato!
Ci sono culture in cui l’evidenza della figura è facilmente assunta a dimostrazione: molto distante dal rigore assiomatico di cui l’Italia sembra rappresentare quasi un’eccellente eccezione. Ebbene si: possiamo considerarci una “particolarità culturale” anche noi, se spostiamo il baricentro del sistema in un altro punto qualunque che non sia il nostro.
Meglio o peggio? Sicuramente la tradizione di rigore formale che ci distingue aiuta a tramandare integra la visione della materia. Il rovescio della medaglia è che il complesso apparato logico necessario per avvicinarsi con questo approccio alla matematica rende tradizionalmente molto “elitaria” la disciplina: le facoltà di matematica si possono accontentare di aule relativamente piccole!
Altri approcci forse perdono di rigore formale, rischiano di perdere in precisione, ma permettono un uso rapido delle applicazioni dei concetti.
Alla nostra didattica della matematica, manca ancora la visione d’insieme tra teorico e applicato: la matematica “numerica”, quella “applicativa” o “applicata”, viene sommessamente insegnata come un sovrappiù nelle aule degli indirizzi tecnici della scuola superiore. Le tanto detestate prove invalsi, che le si ami o le si odi sicuramente dimostrano che manca molto, nella didattica corrente, la traduzione nel reale, il contatto con la realtà.
Può essere utile a questo scopo andare a cercare cosa si insegna dall’altra parte del mare? Magari no, magari sì. Ognuno risponda come meglio ritiene a questa domanda. Senza che sia necessariamente una risposta, qui di seguito propongo un assaggio di aritmetica “in lingua turca” che meritatamente sta spopolando sul web: